coperto a Torino un inibitore del gene che causa la crescita dei tumori ai polmoni, al colon e al pancreas
Uno studio sperimentale portato avanti da un team internazionale con esperti dell’Università di Torino e dell’IRCCS Candiolo potrebbe aprire nuove prospettive nella lotta contro alcuni tipi di tumore, come il cancro ai polmoni, al colon e al pancreas.
Lo studio, intitolato Egfr blockade reverts resistance to KRASG12C inhibition in colorectal cancer, è stato pubblicato sulla rivista scientifica Cancer Discovery.
Condotto da Alberto Bardelli, direttore del Laboratorio di Oncologia Molecolare all’Irccs Candiolo e coordinato dal Sandra Misale, dottorata dell’Università di Torino e ricercatrice associata al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, lo studio ha esaminato su modelli cellulari gli effetti di un farmaco sperimentale, AMG510, che agisce da inibitore del gene KRAS G12C,uno dei geni mutati più comuni nei tumori umani e responsabile della loro espansione.
Considerato da decenni un gene incurabile, grazie alla una nuova classe di inibitori covalenti, tra cui AMG510, è stato possibile inibire una delle mutazioni del KRAS, la G12.
Sono risultati promettenti quelli emersi dalla ricerca in questione, anche se, per il momento, sono maggiori gli effetti positivi ottenuti sui malati di cancro ai polmoni.
Per le cellule del cancro al colon-retto la crescita viene ostacolata solo marginalmente e per un breve periodo di tempo.
“In questo lavoro abbiamo cercato di comprendere i meccanismi alla base delle differenze di lignaggio nelle cellule del cancro ai polmoni e del cancro al colon-retto.”, spiega Sandra Misale. “I dati ci dicono che, nonostante ospitino la stessa mutazione, ci sono differenze intrinseche nel manifestarsi tra i due tipi di cancro, che si traduce in sensibilità diverse dell’inibizione del gene KRAS G12C. Queste scoperte hanno una rilevanza immediata per i pazienti affetti da cancro al colon-retto con un tumore causato dalla mutazione del gene KRAS G12C”.
Dopo l’applicazione su modelli in vitro preclinici, ora si attende solo la sperimentazione del farmaco sull’uomo.
Anche dalla Spagna arrivano i primi risultati di una sperimentazione clinica basata sull’infusione di cellule staminali mesenchimali su pazienti affetti da Covid-19.
Avevamo già parlato in un articolo precedente del ruolo centrale assunto dalle cellule staminali nella lotta contro il Covid-19.
Quando il virus SARS-CoV2 infetta il sistema immunitario dell’uomo in molti casi può svilupparsi come conseguenza una polmonite interstiziale. Il trattamento utilizzato per contrastare la polmonite è la ventilazione forzata del paziente, trasferito in rianimazione. La condizione di ventilazione forzata attiva il sistema coagulativo generando il rischio di processi trombotici, una delle concause che porta al decesso.
Per evitare la rianimazione, con i risvolti negativi conseguenti, sono state utilizzate diverse terapie farmacologiche da parte dei medici.
Le terapie attuate, purtroppo, su alcuni pazienti non attecchirono. In questi casi il trattamento con le cellule staminali mesenchimali poteva rivelarsi una speranza di salvezza, visto la loro azione anti-infiammatoria. Riducendo l’infiammazione si diminuiscono i processi che attivano il sistema coagulativo, portando alla riabilitazione dell’organismo.
Per lo studio Balmys-19, guidato dal Dr. Filipe Prosper dell’Università di Madrid, sono state arruolate 13 persone alle quali la somministrazione di antivirali e anti-infiammatori non aveva prodotto risultati. I pazienti, infatti, erano finiti in rianimazione con ventilazione forzata e, per questo, vennero scelti per il trattamento.
I dosaggi che ricevettero furono diversi: dieci pazienti due dosi, due pazienti una dose e un paziente tre dosi. Una dose media di cellule staminali mesenchimali era di 980.000 cellule per kg di paziente.
Successivamente all’infusione nessun paziente trattato ha manifestato sintomi avversi, mostrando il miglioramento di diversi parametri analizzati.
Passati 16 giorni, nove pazienti, cioè il 70%, hanno presentato miglioramenti e, tra questi, sette sono stati estubati e dimessi dalla terapia intensiva, dando prova degli ottimi risultati ottenuti dal trattamento.
L’infiammazione diminuì in tutti i pazienti e aumentò, al contempo, il livello di leucociti. Quest’ultimo dato dimostra la reattività del sistema immunitario.
È stato dimostrato infine che i miglioramenti avvenivano sia se le cellule staminali impiegate erano estratte da tessuto fresco sia se si trattava di cellule congelate.
In conclusione allo studio è stata raccomandata dai ricercatori molta prudenza, visto che le terapie cellulari, a differenza delle altre, sono considerate “farmaci vivi” e, per questo, devono essere somministrate da personale medico altamente qualificato, sotto la sorveglianza delle autorità sanitarie.